venerdì 26 aprile 2013

Sentire, ascoltare /94

Un immenso foglio di gelatina cinematografica filtrava la luce del sole calante; la città era la scena di una tormentata opera dell'Est: incandescente e rossastra.

Leon, oltre la soglia del portone di casa propria, cinse Milano fuor da sguardo e orecchio, appese la veste dell'uomo pubblico ad un ideale appendiabiti condominiale, e fece due brevi passi in avanti, nell'atrio acciottolato dell'edificio in cui abitava da non meno di dieci anni. 

Seppur l'approssimativa conoscenza dei propri condòmini possa rassicurare scorbutici e tormentati, e Leon era uno di questi, la corte che da lì a poco avrebbe attraversato per raggiungere la scala C -la portineria disabitata, le rastrelliere, i cassonetti dell'immondizia, la magnolia-, non lo metteva al riparo da quel genere di incontri inaspettati che per convenzione richiede, se non un abito, almeno uno straccetto di contegno e dignità. 

Il breve tragitto interno non riserbò incontri spiacevoli, tanto più che Leon stava rimuginando ad una conversazione avvenuta poco prima nei giardinetti vicino casa, e le parole con cui continuava ad argomentare la sua tesi, in silenzio ma con le labbra a mimare i suoni, appartenevano a quel nostro modo diffidente di porci in pubblico, nel reticolo urbano, che poco ha a che fare con la natura intima, privata e segreta dell'uomo; la città era altrove, Leon lo aveva inconsciamente avvertito, ma le leggi della metropoli insistevano ad irretirlo, a influenzarne portamento e riflessione. 

La risposta che avrebbe voluto dare al suo interlocutore, Leon l'afferrò solo in cima alle scale, secondo i dettami di quell'espressione francese, l'esprit d'escalier, che tormenta quanti non hanno avuto prontezza di pensiero nel momento in cui era richiesta.

Non l'alienazione, piuttosto il lucido tornare in sé fu per Leon causa di spaesamento: il suo ragionare privato di cose passate o appena avvenute, lo condussero, infatti, passo passo, all'ultimo piano del palazzo, dove mai aveva messo piede essendo il suo appartamento due rampe di scale più sotto. 

Leon non riconobbe i nomi associati ai campanelli, Levati-Meneghini, Buratti-Colzan, Piazza-Rossetti, non i colori del legno delle porte, non gli stipiti, gli zerbini, i portaombrelli, l'intensità della luce che filtrava dalla finestrella nell'ammezzato. 

Come se in quel luogo così prossimo a casa propria, tra i pianerottoli della rampa della Scala C, Leon avesse realizzato che la sua veste di uomo privato potesse essere calzata solo se il filo del suo ordito fosse intrecciato alla trama degli abiti altrui: per orientarsi nella propria intimità, Leon cercava i segni, le tracce, la presenza degli inquilini. 

Questo suo riflettere, del resto, non sarebbe mai avvenuto se le parole di una conversazioni rimaste fuori le mura del proprio palazzo, il richiamo di una città senza più nascondigli, non avessero spinto Leon al quinto piano della Scala C.