lunedì 13 luglio 2015

Il paese della Cuccagna


Milano è una città a cui non manca niente, «c'è la donna nella Madonna e l'uomo nel Duomo» - persino la parola, Mediolanum, contiene l'universo: «tutte e cinque le vocali, che occupano ciascuna un posto in ogni sillaba». Sembra quasi che la sacra architettura ambrosiana cinga e contenga il mito laico di un'operosa discendenza meneghina; come se, spezzato il pane e versato il vino, dall'unione del D-uomo e della Ma-donna di Milano possa scaturire l'origine, a ufo - ad usum fabricae, o meglio a sbafo -, d'ogni ben di dio: fiumi di latte, fontane di Malvasia, ponti di fette di melone, “capponi arrosto che piovono dal cielo”, montagne di formaggio. «Che sia questo il paese della cuccagna?». Può darsi, tanto che a Milano, a legger tra le righe e a rievocar la fantasia di altri paesi di Bengodi ove “si legan le vigne con le salsicce”, «meglio che di gastronomia milanese si deve parlare di “civiltà alimentare”». Qui, all'ombra di quel marmo di Candoglia rassomigliante a zuccheri in pani, si è sempre mangiato e sempre si è bevuto. Nella seconda metà dell'Ottocento la città era tutta marmitte, casseruole, tegami: 261 osterie, 570 bettole, 475 negozi di liquori; due secoli prima le osterie rinomate erano già un’ottantina, dislocate attorno alle porte di Milano; appena poco fa, vuoi per gli Alemagna, vuoi per i Campari, vuoi per i Motta, era tripudio, era festa, era anche troppo; ed oggi che la città si erge a capitale di convivialità - le cene in bianco, i quadri di leccornie esposti in metrò, il mercato metropolitano, i campi, i cibi, le carte dell'Expò - se ciascuno dei diciassettemila esercizi di ristorazione ambrosiani apparecchiasse una settantina di coperti, l'intera città potrebbe uscire fuori a cena, tutti assieme. Primo, secondo, dolce e caffè.

In questo breve testo cito, perlopiù in modo esplicito, in ordine di apparizione: Stefano Bartezzaghi in “M. Una Metronovela”, Bonvesin de la Riva in “De Magnalibus”, Il mito del paese della Cuccagna” - immagini a stampa dalla raccolta Bertarelli, mostra in corso al Castello Sforzesco -, Alessandro Manzoni in “I promessi sposi”, Giovanni Boccaccio in “Decameron”, Alberto Savinio in “Ascolto il tuo cuore, città”, Lucia Bisi in “Nutrire Milano”, Paolo Mezzanotte in “Milano nel tempo e nella storia”, Emilio Giannelli in “L'album di Milano” illustrato.

Leggi tutti gli articoli sul sito di Rai Expo


sabato 4 luglio 2015

Sentire, ascoltare /143

"Quale preciso significato ha questo regresso del pelo, contemporaneo al progresso della civiltà? Per assai tempo i costumi della «civiltà barbarica» imperarono in tutta Europa e fino da noi, cioè a dire nella sede stessa della civiltà «civile». Anche presso di noi la barba passava per un attributo di dignità, la faccia glabra era prerogativa dei camerieri, l'uomo con barba rappresentava il tipo del bell'uomo, dell'uomo forte. Poi, a poco a poco, la razionale civiltà latina cominciò a riconquistare i suoi diritti e,fatto notabile, la barba cominciò a morire quando il razionalismo cominciava a nascere. Il passaggio dalla barba come elemento protettivo alla barba come puro ornamento. e quindi alla faccia rasata, si ripete nell'evoluzione dell'architettura. Anche l'architettura cominciò con l'essere coperta e barbuta per necessità di difesa: palazzi che erano assieme fortezze. Poi questa necessità venne a mancare, ma l'architettura continuò a essere «barbuta» per ornamento: dal barocco al rococò. Ci si accorse infine che la barba dell'architettura era inutile e si arrivò all'architettura «rasata». Lo stesso avvenne nell'arredamento. dal salotto pieno di puf, tendaggi, cortine, brise-bises, canapè con falpalà e baldacchino, paralumi con la fustanella, ninnoli e chineserie, si passò al salotto attuale ove tutto risponde (o dovrebbe rispondere: il razionalismo degenera in estetismo - ma questo è un altro discorso) a ragioni di comodità e di logica. Si noti che il salotto «barbuto» era la ripetizione domestica del fasto e del sovrabbondante tanto caro alle civiltà barbariche, e non per nulla in quel salotto dominava l'orientalismo. Ora questo passaggio dell'architettura «barbuta» all'architettura «rasata», che altro è se non il passaggio dalla civiltà barbarica alla civiltà latina?".¹


¹ Il testo è contenuto in nota al seguente paragrafo di Ascolto il tuo cuore, città, Alberto Savinio, 1944. "Riconosco l'Ariosto dal ritratto che gli fece Tiziano pieno di barba e di capelli, fratello maggiore di quegli bei uomini tipo Chinina Migone che io feci in tempo a conoscere da bambino".

giovedì 2 luglio 2015

Riflessi

Non c'è passante che sappia resistere alla propria immagine riflessa. A Milano - si nota bene in corso Buenos Aires o in corso Vercelli - i viandanti fiancheggiano edifici, bar e negozi torcendo il collo verso le vetrine: per ravvivare il ciuffo, sistemare la camicetta o la postura, sbirciare alle proprie spalle - il rumore dei tacchi, il vociare di un gruppo, lo sputo di un uomo. 

L'effetto visivo è simile al rapido passaggio di un treno: fermo alla banchina della stazione, contemplo la mia silhouette vibrare a pinnacoli sui finestrini dei vagoni, di tanto in tanto risucchiata dalla luce che filtra dove i ganci di trazione si incontrano. Baluginii, riverberi oppure paccottiglie, ninnoli, leccornie.

Ci si specchia, vanità delle vanità, e ci si addentra nelle cose: gli occhi predano le porcellane, gli oggetti hi-tech, i tessuti, l'antiquariato: si penetra lo spazio, la profondità delle stanze a vista. Una commessa - lei dentro, noi fuori - ci osserva, indugia con lo sguardo sul prospetto che vetrina e vetrofanie concedono alla città. Basta un attimo e la merce esposta sei tu, viandante.

L'Esposizione Universale espone alla vista per definizione, mette in mostra, è una vetrina internazionale. Sul decumano, l'asse portante del sito, si svoltola in linea retta il mondo intero; i paesi partecipanti - padiglioni e delegazioni - si lasciano ammirare e a loro volta ammirano, riflettono gerarchie di potere, di conoscenza, di estetica, misurano la propria forza attrattiva. È un esercizio di osservazione, di vedo-non-vedo, di voyeurismo sì alimentare, ma anche sociale e politico. 

Continua a leggere sul sito di Rai Expo