giovedì 27 ottobre 2016

Corpo di mille balene!


“Silvia non muoverti”. “Cosa c'è?”. “È tutta la notte che ti muovi, quietati”. “Non mi sono mossa, stavi sognando”. Ho lasciato correre, inutile fare polemica di primo mattino: mi sono girato sul fianco destro, lei sul sinistro, ancora ad occhi chiusi, nel pigro tentativo di riprendere sonno. E come spesso accade a pochi minuti dalla prima sveglia, addormentarsi significò sprofondare in un mondo di sogni e lievità.

Ero sdraiato su una zattera di piccoli tronchi, con le braccia penzoloni a contemplare le arcate di verzura che adombravano il fiume. Era il Lambro, ma assomigliava più al Mississipi di Huckleberry Finn, al Gange di Tremal Naik, al Congo di Kurtz. Andavo in cerca di terre sconosciute e di libertà romanzate; inseguivo lucci, libellule e ragni volanti.

Fu una curva del fiume a rovinare tutto: l'acqua si fece a flutti e il cielo cupo, d'improvviso. Pagaiavo tra i marosi, ma il remo non resse! e giù a mani nude, schiaffate nell'acqua grossa come pale: ciaf, splash, ciaffete. Ero allo stremo, la zattera stava colando a picco e prima che potessi lasciarci le penne mi svegliai.

Ma corpo di mille balene! Il materasso era zuppo d'acqua, mulinava indomabile in mille guise e tutto attorno era una ridda di mobili, abiti e cianfrusaglie. Silvia era già sveglia, incredula, ben salda alla testata del letto: “Hai chiuso il rubinetto verso destraaa?”. “Cosaaaa?”. “Il rubinettooo?!”. “Urla più forteee?”. “L'hai chiuso verso destraaaa?”. “NOOO!”. “Ti avevo detto di ripararlooo”.

Un guasto di routine era oramai un'irriducibile tempesta: un gorgo mostruoso e potente che inghiottiva ogni cosa di casa: i quadri, le abat-jour, i comodini, le sedie, tutto! E non c'era modo di venirne a capo. Il letto andò a squassarsi contro la porta della camera e di due piazze ne rimasero mezza, su cui io e Silvia ci stringevamo. Un naufragio tra pesci-calzini, libri-marini e scialuppe-appendini: un putiferio di vento, cavalloni d'acqua e relitti di design.

Afferrai la corda di una tapparella e cercai di issarmi come si fa sugli alberi di barca, ma la tenda volava come randa impazzita. Quella casa non era il Pequod del comandante Achab, non il veliero di Gordon Pym, ma poco ci mancava; lo sciabordio era assordante, il becchéggio senza sosta e noi sfiniti. La fune si spezzò, il cassone della persiana rovinò nel pelago-salotto alzando onde alte oltre due metri in una stanza di quattro a dir tanto. Il turbine ci prese senza scampo e tre volte il fé girar con tutte l'acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com'altrui piacque, / infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.

Sentii l'acqua dolce e calcarea entrare nei polmoni, Silvia fluttuava sottosopra attorcigliata a cravatte e foulard di vecchi cassetti riversati in mare. Pensavo di morire, pensavo fosse morta; quand'ecco la porta di ingresso! Radunai tutte le forze e spinsi di gambe: cedette il legno marcio di quel varco tarlato di una palazzina anni Sessanta, e surfammo per la rampa di scale fino al cortile.

Ci prese, naufraghi ed esausti, il portinaio: “Va che non è niente, ora chiamo l'idraulico”.

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